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In fuga dalla guerra

Intervista con un uomo di 42 anni, originario della Somalia

Prima della guerra io non stavo male in Somalia. Certo la situazione non era facile, c’erano tanti problemi, c’era povertà. Non si aveva certezza del futuro, lo Stato non era come qui, non c’erano aiuti. Sono andato via quando è scoppiata la guerra. Sono un profugo di guerra. Quindi, adesso sono vent’anni che sono in Italia. Sono scappato via dal mio paese, dalla mia città, con molta tristezza. Inoltre ho perso un fratello, che è morto, è stato ucciso. Ancora oggi è duro pensare a questo. Mio fratello è morto un mese prima della mia partenza per l’Italia. Parte della mia famiglia è ancora in Somalia, un altro fratello è qui in Italia, mentre ho anche un cugino che si è trasferito in Francia. Prima della guerra abitavamo tutti nella stessa città, adesso siamo in diversi paesi, ci teniamo in contatto ma non è la stessa cosa.

Quando sono andato via dalla Somalia avevo ventidue anni, ero un ragazzo. Mi ricordo che avevo molta paura. L’Italia mi sembrava un mondo misterioso, con grandi differenze. Non avevo punti di riferimento, non conoscevo nessuno. Dovevo riiniziare tutto da capo, e non sapevo cosa pensare della mia vita in quel momento, come e dove costruirmi un futuro. C’erano altri somali con me, ci incoraggiavamo, per tirarci su. La prima città che ho visto era Bologna, dove sono stato qualche mese; poi sono venuto a Firenze, perché qua c’era un mio amico. Lui era arrivato in Italia un po’ prima di me e quindi mi ha aiutato. Così, quando sono arrivato a Firenze, c’era almeno una persona che conoscevo davvero.

Il primo periodo è stato davvero brutto, mi sentivo veramente estraneo, straniero. Non so se era la mia poca confidenza con quasi tutto quello che mi circondava, ma spesso mi capitava di sentirmi addosso gli occhi della gente, che mi guardava in maniera diversa. Non mi è mai successo niente di spiacevole, ma questo non mi faceva stare tranquillo all’inizio.

A Firenze c’erano anche altri somali, ci incontravamo spesso e passavamo il tempo insieme. Grazie a un mio connazionale ho trovato il lavoro che ancora oggi faccio: sono dipendente di una ditta di pulizie. Trovare questa possibilità per me è stato molto importante, mi ha permesso di inserirmi. È un lavoro che faccio volentieri, anche se agli italiani può sembrare strano. Spesso sento dire in televisione che gli italiani non vogliono fare questi lavori. In realtà alcuni miei colleghi sono italiani.

Mia moglie è italiana. L’ho conosciuta un’estate alla festa dell’Unità. Abbiamo due figli. Penso di essere stato molto fortunato a conoscerla. Lei lavora in un supermercato. Così viviamo lei, io e i nostri figli in una casa in affitto. Il fatto di essere somalo, di essere nero, di essere immigrato con lei non è mai stato un problema. Anche i suoi genitori non hanno mai avuto niente in contrario. Tutto questo mi ha molto aiutato: in tante cose io mi sento inserito in Italia. Certamente so che la mia terra è la Somalia, ma la mia vita è qui, il mio futuro è qui.

I miei figli vanno a scuola, e a volte i loro insegnanti mi hanno chiesto di andare in classe per raccontare la mia esperienza, la guerra, l’essere andato via dal mio paese. Ho sempre accettato questi inviti, anche se per me è molto difficile parlare di certe cose, perché in fondo non sai mai quale può essere la reazione di chi ti ascolta. Però è importante far conoscere queste storie ai ragazzi, perché oggi in Italia ci sono tanti stranieri immigrati per motivi diversi ed è molto importante capire come si può convivere tutti insieme. Per questo la conoscenza è la prima cosa.